Nel contesto europeo contemporaneo, segnato da disoccupazione di lunga durata, crescente povertà lavorativa e sfiducia nei confronti delle istituzioni democratiche, il dibattito sulle politiche occupazionali sta conoscendo una fase di rinnovamento. Tra le proposte più strutturali e innovative vi è quella della Job Guarantee: un programma pubblico che garantisce a ogni persona disposta a lavorare un impiego dignitoso, socialmente utile e retribuito, finanziato dallo Stato.
Una delle voci più autorevoli a livello internazionale su questo tema è Rania Antonopoulos, economista politica, docente e Senior Scholar presso il Levy Economics Institute di New York. Con un solido background accademico e una rilevante esperienza istituzionale, Antonopoulos ha ricoperto il ruolo di Viceministra del Lavoro per il contrasto alla disoccupazione in Grecia, dove ha progettato e implementato uno dei primi programmi europei di Job Guarantee: il “Koinofelis Ergasia”.
Nel suo recente studio “Towards a European Job Guarantee”, pubblicato nel 2024 dall’European Trade Union Institute (ETUI), Antonopoulos delinea un’analisi articolata e approfondita sulla fattibilità economica e politica di una Job Guarantee a livello europeo. Il rapporto mostra come questo strumento possa generare benefici duraturi in termini di occupazione, stabilità sociale, coesione territoriale e fiducia nelle istituzioni, rappresentando una risposta concreta ai limiti delle politiche attive del lavoro tradizionali.
In questa intervista, abbiamo approfondito con lei le caratteristiche fondamentali di questo modello, le lezioni apprese sul campo, e le condizioni necessarie per una sua applicazione efficace, sia a livello locale che sovranazionale.
Che cos’è esattamente una Job Guarantee? E in cosa si distingue dalle politiche tradizionali per l’occupazione?
La Job Guarantee è un intervento pubblico rivolto alle persone disoccupate, in particolare a quelle escluse da lungo tempo dal mercato del lavoro. Si tratta di un programma finanziato dallo Stato che garantisce l’accesso a un lavoro retribuito e socialmente utile, non subordinato alle dinamiche del mercato.
A differenza dei sussidi di disoccupazione— che restano comunque fondamentali per evitare il tracollo dei redditi—la Job Guarantee non si limita a sostenere economicamente chi è senza lavoro, ma offre un’opportunità concreta di impiego. Anche le politiche di formazione e riqualificazione sono utili, ma per chi resta disoccupato per anni, queste misure non bastano. Serve un meccanismo capace di assorbire la manodopera non assunta dal settore privato, restituendo reddito, dignità e ruolo sociale.
Nel suo ultimo report lei lega la Job Guarantee anche alla democrazia. Perché?
Quando lo Stato non riesce a rispondere ai problemi delle persone—che si tratti di disoccupazione, salari troppo bassi o costo della vita insostenibile—si crea un vuoto di rappresentanza e protezione. Questo vuoto può essere pericolosamente occupato da movimenti populisti o estremisti. Lo abbiamo visto in Grecia, dove la crisi e le politiche di austerità hanno favorito la crescita di gruppi neofascisti come Alba Dorata. Ma anche a livello europeo, durante la crisi del 2014, oltre 12 milioni di persone erano disoccupate da più di un anno.
La Job Guarantee può essere una risposta concreta a questo senso di abbandono. Non solo produce reddito, ma rafforza il patto tra cittadinanza e istituzioni, offrendo soluzioni tangibili a chi si sente escluso. È, quindi, anche una politica di ricostruzione democratica.
Lei ha guidato un programma nazionale in Grecia. Cosa ha funzionato? E cosa migliorerebbe oggi?
Il programma greco ha avuto un impatto positivo, ma era troppo limitato rispetto all’entità della crisi. Siamo passati da 375.000 a 1,37 milioni di disoccupati in pochi anni, eppure riuscivamo a offrire solo 50.000 posti di lavoro l’anno, per otto mesi. Chiaramente non era sufficiente.
Una lezione importante riguarda la durata dell’occupazione: offrire un lavoro temporaneo a persone che difficilmente saranno riassorbite dal mercato—ad esempio over 50 o persone marginalizzate—non è efficace. Serve continuità, e la possibilità di restare nel programma fino a quando non si trova un’occupazione migliore, non il ritorno alla disoccupazione. Un altro elemento cruciale è la progettazione partecipata: oggi, nei progetti pilota in Italia, Belgio, Francia e Austria, vediamo che coinvolgere territori, comuni, terzo settore e imprese locali migliora la qualità e l’impatto dei lavori offerti. È un approccio corretto e lungimirante.
Una Job Guarantee europea: sogno o possibilità concreta?
Penso che siamo a un punto di svolta. Per la prima volta si inizia a parlare di occupazione non solo in termini di flessibilità e produttività, ma anche in termini di stabilità e inclusione. I progetti pilota in corso in diversi Paesi possono costituire la base per una vera Job Guarantee europea. Ma è fondamentale informare l’opinione pubblica, non solo i decisori politici.
Bisogna coinvolgere i cittadini, spiegare che la Job Guarantee è una scelta, non un obbligo: un’alternativa concreta tra sussidio passivo e partecipazione attiva, con opportunità di formazione.
In Grecia abbiamo visto molte persone abbandonare il reddito minimo per aderire al programma di lavoro garantito. Sul piano economico, queste politiche non sono costose, se si guarda al costo netto: fino al 50% dell’investimento rientra sotto forma di entrate fiscali e dinamiche economiche locali.
E mentre si mobilitano centinaia di miliardi per la difesa, perché non destinare una minima parte a lavoro, dignità e coesione sociale? Non esiste un “momento perfetto” per introdurre idee nuove. Il momento è adesso.
Dalle parole di Rania Antonopoulos emerge con chiarezza una visione politica e sociale della Job Guarantee: non un programma assistenziale, ma una nuova infrastruttura pubblica per l’inclusione, la partecipazione e la transizione ecologica e sociale.
Con il progetto Territori a Disoccupazione Zero, l’Italia entra a pieno titolo nel dibattito europeo, sperimentando sul campo una politica pubblica del lavoro centrata sui bisogni reali delle persone e dei territori, che potrebbe presto diventare un pilastro per un nuovo modello di welfare europeo.